A Roma ci sono vari siti di interesse storico e religioso, tra cui questo che ricorda purtroppo alcune atrocità di un periodo non proprio felice: il Museo storico della Liberazione.

 

iniziamo dalla storia

Cominciamo col dire che questo museo si trova in un palazzo degli anni trenta e occupa tre piani su quattro dove in origine vi sorgeva villa Giustiniani .
La prima occupazione di questo edificio fu l’ambasciata tedesca in Roma che era poco distante; in questo stabile, vedremo dal video, vi è anche un giardino, sempre dell’allora villa, dove vi sono ancora dei ruderi romani.

da ambasciata a centro culturale

Come detto qui dove ora abbiamo il Museo storico della Liberazione vi era l’ambasciata tedesca che lo trasformò nella sede dell’ufficio culturale riservato alla polizia e ai militari.
Proprio qui il diplomatico assunto fu Kappler, allora dipendente della Gestapo il quale con questa carica ricevette nel 1939 la possibilità di entrare nel nostro Ministero dell’Interno.

poi caserma

Come sappiamo l’8 settembre del 1943 venne firmato un armistizio e questo edificio divenne magicamente sede ufficiale della SIPO (Polizia di Sicurezza) e della SD (agenzia di raccolta informazioni) con a capo sempre Kappler che divenne tenente colonnello.
Quindi, se una parte era riservata agli uffici ed alla caserma, nella parte opposta fu creato il famoso Hausgefängnis che vuol dire “casa-prigione”; dove chi veniva arrestato rimaneva a disposizione durante le indagini di rito.

e carcere

Pian piano tutto si trasformò e l’edificio divenne un carcere, trasformando così gli appartamenti in celle: via i mobili, via camere e cucine, via tutto e le finestre furono murate lasciandone una piccola parte con una grata per far entrare un po’ di luce e di aria; così fu per le porte: tutte chiuse con solo uno spioncino apribile solo dall’esterno, mentre i bagni rimasero intatti ma anch’essi con le finestre murate.

 

In queste celle la luce non era abbastanza se pensiamo che veniva solo da un piccolo spazio in alto, sopra la finestra murata, tant’è che l’impianto elettrico fu disattivato perché ritenuto non necessario.
Alcune tavole di legno fungevano da letti oppure si dormiva sul pavimento e tra i reclusi c’era chi scriveva messaggi ovunque, sui muri, sugli abiti e persino sui calzini.

 

           un messaggio nel calzino

 

con tanti prigionieri, troppi

L’aumento dei reclusi fece diventare difficile la situazione igienica, e così vennero aperte alcune feritoie, piccole ma sufficienti per far aumentare il circolo dell’aria e successivamente fu presa la decisione di installare una lampadina in ogni cella.
Un altro cambiamento lo subirono i bagni, dove vennero riaperte le finestre ma con grate e rimosse le porte, in modo da poter controllare chi vi accedeva e all’occorrenza umiliare.

maltrattamenti e umiliazioni

Noti sono ancora i vari comportamenti anomali di chi è prigioniero, qui spesso i reclusi venivano svegliati di notte all’improvviso per essere sottoposti ad interrogatorio a volte accompagnato da torture o sevizie; oppure altro divieto in vigore era la mancanza di possibilità di parlare con altri detenuti nella stessa cella altrimenti si veniva segregati in un’altra;
insomma qui era peggio che nel carcere romano di Regina Coeli, anch’esso diretto da tedeschi.

arriva un medico, poi testimone “scomodo”

Nel febbraio del 1944 un paziente ebbe bisogno di un medico e fu chiamato così il dottor Cardente il quale notò le condizioni di “vita” dei detenuti scoprendo anche la presenza del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
In seguito a questo intervento e aver così soddisfatto le aspettative del malato, il dottor Cardente fu obbligato, contro la sua volontà, a diventare il medico ufficiale e testimone inaspettato delle torture che venivano ordinate da Herbert Kappler.
Dovette tacere fino alla liberazione, che sperava arrivasse presto, ma la sua testimonianza fu decisiva riguardo le responsabilità di Kappler.

 

          testimonianze lasciate sui muri

 

finché arrivò la fine del carcere e la liberazione

Finalmente nel giugno del 1944 avvenne lo sgombero dei nazisti che cercarono di trasferire i prigionieri su due camion fino a Verona ma a causa di un guasto ad uno dei mezzi non riuscirono a trasportarli tutti e abbandonarono l’edificio lasciando alcuni detenuti chiusi a chiave nelle celle.
La partenza e ritirata dei tedeschi spianò la strada ai cittadini che andarono a liberare i detenuti rimasti, mentre quelli riusciti a partire su uno dei camion vennero liberati, il camion fu infatti  fermato poco fuori Roma, in località La Storta.

e nasce il Museo

Dopo l’occupazione dell’edificio da parte di vari sfollati, nel 1950 una parte del palazzo di proprietà dell’allora principessa Josepha Ruspoli in Savorgnan di Brazzà fu donato allo Stato per farlo diventare Museo storico della lotta di Liberazione in Roma.
La costituzione di un comitato servì per la raccolta dei documenti e altro che sarebbe poi stato esposto, la realizzazione del museo fu curata dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal direttore della biblioteca di archeologia e storia dell’arte.
L’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi inaugurò la prima parte del Museo e infine nel 1957 il Museo venne riconosciuto come Ente pubblico e tutelato dal Ministero della pubblica istruzione  passando poi al Ministero dei Beni Culturali.

Impressionante è dire poco, davvero!

Visitare un Museo è sempre piacevole, questo Museo storico della lotta di Liberazione, no.
Vedere queste ex stanze diventate celle con le finestre murate, le prese d’aria ristrette, i muri scalfiti dalle scritte dei detenuti, le lettere e i messaggi cuciti sui calzini,  no, vien da chiedersi se si è trattato di un sogno, di un brutto sogno… ma non fu un sogno, purtroppo.

 

Se passate per Roma e se non siete troppo sensibili, andate a visitare questo Museo storico della lotta di Liberazione, va visto quello di cui si è stati capaci di fare al nostro prossimo, affinché non possa più ripetersi.

Questo il suo indirizzo:
Museo storico della Liberazione
Via Torquato Tasso, 145
00185 – Roma